di nea delucchi
Le parole contano.
Non solo quando parliamo di comunicazione o di inclusione di genere nella lingua.
Non solo quando discutiamo se dire “ingegnera” o “ministra”.
Le parole contano soprattutto quando sono nero su bianco in una sentenza.
Contano perché hanno il potere di nominare, riconoscere, giudicare.
Contano perché creano precedenti, narrazioni, giustificazioni.
Contano perché possono dare giustizia o uccidere due volte. Possono dare o togliere dignità a una vittima.
In questi giorni, la sentenza sul femminicidio di Giulia Cecchettin ci ha lasciate e lasciati sgomenti. Non per la condanna , un ergastolo scontato , che comunque non riporterà Giulia tra noi , ma per le motivazioni.
“Non ci fu crudeltà. Solo inesperienza.”
Settantacinque coltellate.
Eppure, secondo il giudice, non crudeltà.
Come se 75 colpi inferti a un corpo, a una persona che si difende, che cerca di scappare, che viene inseguita, trascinata in auto, che urla, che supplica, potessero essere ridotti a un’incapacità tecnica di “uccidere meglio”.
Come se il fatto di non essere riuscito a colpire “nel punto giusto” rendesse tutto più umano. Più accettabile. Non crudele.
Ma non stava colpendo un cuscino.
Stava colpendo una donna.
Settantacinque volte.
Colpo dopo colpo.
Non si è fermato.
Questa non è inesperienza.
Questa è crudeltà.
E la crudeltà, in un femminicidio, non è solo un’aggravante accessoria. È l’essenza stessa dell’atto.
Perché un femminicidio non è mai un raptus.
Non è mai un gesto isolato.
È il compimento di un processo di disumanizzazione, di dominio, di annientamento.
Un femminicidio nasce in un contesto fatto di controllo, possesso, manipolazione, umiliazione.
È un omicidio che non ha nulla di improvvisato, anche quando sembra esplodere in un momento.
È un delitto di potere, che ha come obiettivo la cancellazione dell’identità, della libertà, della volontà dell’altra. È la cancellazione della sua esistenza che va oltre il semplice omicidio.
Non può esistere un femminicidio senza crudeltà.
E invece le sentenze ,ancora oggi , spesso parlano d’altro.
Parlano di “motivazioni comprensibili”, come nel caso del marito di Gabriela Trandafir, che l’ha ucciso lei e la figlia a colpi di fucile.
Parlano di “disperazione” e “delusione” per la separazione, come nel caso di Genova, dove l’assassino ha ottenuto le attenuanti perché mosso “da un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento”.
Parlano di “assenza di premeditazione” e di “maltrattamenti assorbiti nell’omicidio”, come se la violenza domestica fosse un prequel inevitabile dell’uccisione.
Ma le parole scelgono da che parte stare.
Se scelgono di giustificare, sminuire, spiegare, spostano il peso del reato.
E tolgono dignità a chi non può più parlare.
Perché non è l’ergastolo a dare giustizia, lo sappiamo, ma una sentenza che chiama le cose con il loro nome può farlo.
Può restituire alla vittima la verità della sua storia.
Può dire, con fermezza, che 75 coltellate sono crudeltà.
E che il femminicidio non può essere spiegato con l’inesperienza, ma va riconosciuto per ciò che è: l’atto estremo e crudele di un potere che non accetta il rifiuto, l’autonomia, la libertà dell’altra persona.
Le parole contano.
Per questo non possiamo più permettere che siano usate per giustificare chi uccide e per processare chi muore.